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Le scuole calcistiche nel mondo
Il calcio, come detto prima, si è sparso a macchia d'olio su tutto il pianeta coinvolgendo mille popoli diversi, ciascuno con la propria storia e la propria identità, e quindi anche il proprio modo di interpretare il gioco.
Le scuole calcistiche sono proprio questo: diverse maniere di giocare a pallone, concezioni differenti del gioco.
I maestri inglesi
La scuola inglese è stata a lungo quella dominante. Nei primi 50 anni del passato secolo, affrontare l'Inghilterra o una squadra di club inglese significava andare a lezione di calcio, prendere una enorme quantità di reti e segnarne pochissime, se non nessuna. La ragione è che gli inglesi adottarono prima di chiunque altro la tattica, si disponevano con ordine in campo, sapevano colpire il pallone in modi allora impensabili e, soprattutto, arrivarono prima di tutti gli altri al professionismo.
Nella fase moderna del calcio, la scuola inglese predica un calcio basato molto sulla fisicità, una tecnica di base piuttosto povera e una tradizione di centravanti e di difensori centrali fortissimi di testa, nati per raccogliere o contrastare i lanci lunghi dal centrocampo o dalle fasce. Questa tradizione inglese sta tuttavia scomparendo sotto la spinta di diversi modi di concepire il calcio introdotti in Inghilterra da giocatori e allenatori stranieri, soprattutto francesi nel campionato di calcio inglese che ha elevato, e di molto, il tasso tecnico almeno delle squadre più prestigiose.
Lo schema classico del calcio inglese era, e rimane, il più diffuso: il 4-4-2. Portiere: stella di sempre: Gordon Banks. Difesa: uno dei centrali si stacca di qualche metro indietro, i terzini raramente superano la metacampo. Stella di sempre: Bobby Moore. Centrocampo: disposto in linea. Uno dei centrali ha funzione difensiva, l'altro si inserisce in area avversaria durante la fase di attacco. Gli esterni sono ali pure, preferibilmente veloci e abili nel dribbling. Stella di sempre: Stanley Matthews. Attacco: ci si affida ad attaccanti abili in area da rigore, generalmente forti fisicamente e di testa, ma a volte anche agili e reattivi. Stella di sempre: Bobby Charlton.
La fine del dominio britannico: la grande Ungheria
L'iniziale dominio incontrastato degli inventori del calcio finì il 25 novembre 1953 quando la nazionale di calcio ungherese sconfisse pesantemente i maestri per 6-3, per giunta nella cattedrale del calcio: lo stadio di Wembley a Londra. Gli inglesi fino a poco tempo prima si erano rifiutati di affrontare nazionali straniere e di partecipare alle competizioni internazionali, orgogliosi della propria superiorità. Quando le frontiere si riaprirono, gli ex maestri si resero conto di essere stati raggiunti ed abbondantemente superati dallo splendido gioco della scuola ungherese la cui nazionale nel 1938 aveva perso un campionato mondiale solo in finale contro l'Italia.
Ma la nazionale che vinse a Wembley fu senza dubbio la più forte degli anni cinquanta e a detta di molti, una delle più belle della storia di questo sport. Un anno prima del 6-3 questa squadra si era aggiudicata l'oro olimpico di Helsinki senza molte difficoltà. Gli ungheresi hanno sempre brillato per la loro tecnica sopraffina e le giocate spettacolari, ma nessuna nazionale o squadra di club raggiunse la competitività di quell'Ungheria.
Era una squadra basata sul blocco della Honved, la squadra dell'esercito magiaro. Una formazione composta da talenti come Ferenc Puskás (forse il migliore in assoluto, fece la fortuna del Real Madrid), Josef Bozsik, eccellente interprete del ruolo di mediano e Sandor Kocsis in attacco insieme a Nandor Hidegkuti che giocava da centravanti mimetizzato da centrocampista. Da non dimenticare Laszlo Kubala che giocò a lungo nel F.C. Barcelona, considerato dai tifosi blaugrana il migliore della storia del loro club.
La Grande Ungheria perse la finale del Mondiale 1954 contro la Germania Ovest per 3-2. Non sono molti ad avere dubbi che per qualità del gioco, avrebbero meritato la vittoria gli ungheresi; inoltre nei mesi successivi alla finale i giocatori della Germania Ovest ebbero tutti gravi problemi di salute così da alimentare fortemente l'ipotesi che ad essi venne somministrata una massiccia dose di doping.
La scuola italiana: il catenaccio
Negli anni sessanta si è affermata la scuola italiana. I teorici del gioco all'italiana sono stati Gipo Viani, Nereo Rocco ed Helenio Herrera che pure era argentino. Si tratta di un modo di giocare che predilige la fase difensiva e predispone un sistema formato da un giocatore libero da compiti di marcatura (una lezione figlia dei terzini metodisti) che agisce alle spalle di due marcatori puri e di un fluidificante, generalmente mancino; il centrocampo è imperniato su due mediani di rottura, anche se spesso uno dei due è un centrocampista polivalente, capace di ricoprire più ruoli nel corso di una partita; davanti a questi o al loro fianco, in posizione centrale, agisce il regista, che ha il compito di organizzare l'intera manovra. La fase di offesa, che nasce dalle aperture o dalle incursioni palla al piede del regista, si sviluppa intorno ad un'ala (solitamente destra), una punta centrale e una seconda punta di raccordo che svaria sul fronte d'attacco.
Le vittorie di Herrera con l'Inter e di Rocco col Milan hanno confermato nella pratica questa filosofia calcistica, anche se è pur vero che la scuola italiana aveva prodotto eccezionali giocatori di difesa come Giacinto Facchetti, Giovanni Trapattoni, Cesare Maldini, Tarcisio Burgnich e giocatori d'attacco dalla grande fantasia come Mario Corso, Gianni Rivera e Sandro Mazzola. Una scuola prevalentemente difensivista che ha sempre prodotto anche tanti grandi attaccanti e fantasisti.
Alla base della filosofia italiana c'è un attento studio dell'avversario e la grande importanza data alla tattica, due misure oggi adottate quasi ovunque nel mondo del calcio. Pensando soprattutto a non subire reti, la scuola italiana ha modificato alla tattica introducendo la marcatura a uomo in ogni parte del campo e l'impiego sistematico del libero, un difensore d'emergenza senza obblighi di marcatura che giocava dietro la linea dei difensori. Adottare la marcatura a uomo con il libero significa in molti casi uccidere lo spettacolo e stroncare sul nascere ogni iniziativa avversaria. Il cosiddetto catenaccio. Un metodo che veniva considerato dagli avversari (ma anche oggigiorno) in termini negativi: una squadra poteva arrivare a subire per 89 minuti il gioco avversario ma in una sola azione fiondandosi in contropiede o inventando qualche situazione particolare poteva risolvere la partita senza timore di subire reti... quasi come qualcosa di antisportivo, al limite del regolamento.
Tuttavia è pure vero che il calcio italiano ispirandosi alla scuola olandese degli anni settanta ha saputo produrre anche esempi di calcio offensivo, come nel caso del Milan allenato da Arrigo Sacchi negli anni ottanta. Si è trattato di una squadra votata all'attacco e al gioco corale, cui abbinava una grande perizia nella fase difensiva. La formazione rossonera seppe raggiungere eccellenti risultati.
Il "calcio totale" degli olandesi
Agli albori degli anni Settanta, in pieno clima di rivoluzione nella società, anche il calcio ebbe la sua. Si chiamava Olanda. La scuola olandese deve la sua affermazione soprattutto a due persone: l'allenatore dell'Ajax Rinus Michels e il calciatore Johan Cruijff, considerato uno dei migliori di sempre, senza il quale né la squadra di Amsterdam né la Nazionale orange avrebbero potuto tradurre sul campo, e con tanta efficienza, la propria forza innovativa.
Quando si parla di "calcio totale" ci si riferisce al gioco che mostrarono prima il PSV Eindhoven e subito dopo l'Ajax e la selezione olandese: qualcosa di mai visto prima, almeno non in maniera tanto sistematica. Ogni giocatore doveva saper interpretare tutti i ruoli: il difensore saliva ad attaccare, il portiere avanzava per rilanciare immediatamente l'azione, un attaccante poteva e doveva tornare indietro ad aiutare i compagni in fase di non possesso palla. Perché questo potesse verificarsi erano necessarie continue rotazioni di ruolo, con movimenti a scalare e complicati meccanismi tattici.
Ogni giocatore, anche un centrale difensivo o un portiere, doveva saper giocare benissimo il pallone e non buttarlo mai via; tutti e undici dovevano muoversi e correre costantemente per tutti i 90 minuti. All'epoca era qualcosa di molto insolito vedere tutti i giocatori muoversi. Nei pochi momenti in cui i giocatori non correvano, era il pallone a farlo, con una rapida successione di passaggi, la cosiddetta melina, preludio di un'intensa accelerazione del gioco. Alcune di queste caratteristiche oggi appaiono piuttosto scontate per qualsiasi squadra professionista, ma fu l'Olanda a farle vedere per prima su un campo di calcio.
La nazionale olandese, chiamata anche l'arancia meccanica, poteva contare su altri grandi talenti come le due ali Johnny Rep e Rob Rensenbrink, il difensore esterno Ruud Krol, Johan Neeskens, considerato il "gemello" di Cruyff e altri ancora: una generazione particolarmente dotata, capitanata da Johan Cruyff. Simbolo del giocatore in grado di interpretare ogni ruolo e sapersi adattare ad ogni situazione, velocissimo e dal gran senso tattico. Di base era un centravanti e ha segnato diversi gol ovunque abbia giocato.
Con questi uomini, compreso l'allenatore Michels, l'Ajax vinse tre Coppe dei Campioni consecutive dal 1971 al 1973 e l'Olanda perse una finale Mondiale nel 1974 contro la Germania Ovest. Michels si prese la rivincita nel 1988 quando vinse il campionato europeo con un'altra grandissima generazione di calciatori.
Oggi la scuola olandese percorre la stessa strada tracciata 35 anni fa e continuano a nascere ottimi giocatori praticamente a getto continuo. Le loro caratteristiche sono quelle classiche di un giocatore orange: duttilità, tecnica, sapienza tattica.
Scuola tedesca: concretezza e vittoria
C'è una frase molto famosa di Gary Lineker, attaccante inglese degli anni ottanta, che potrebbe servire ad introdurre la "scuola tedesca": «Il calcio è un gioco molto semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti e, alla fine, vincono i tedeschi».
Il modello teutonico non riscuote grandi simpatie dai non tedeschi, un po' come succede agli italiani. Il motivo è molto simile: si tratta di una riedizione del gioco all'italiana basato sulla difensiva, che non contempla lo spettacolo. Nella scuola teutonica però i terzini a turno alimentano la fase offensiva e lo strapotere fisico di alcuni giocatori danno un lustro leggermente più offensivo alla disposizione in campo. Nel 1974, la finale mondiale Olanda - Germania Ovest rappresentò lo scontro tra due filosofie opposte di calcio. La Germania Ovest si preoccupò di difendersi dagli attacchi olandesi dando l'impressione di essere ben più debole della sua avversaria. Sotto di un gol, finì per rimontare e vincere la partita.
Ma quella non fu l'unica rimonta "impossibile" dei tedeschi, nel 1954 accadde qualcosa di molto simile all'Ungheria che pure giocava un calcio di gran lunga più bello ed arioso di quello tedesco, che tuttavia poteva contare sul grande temperamento e spirito di sacrificio dei suoi giocatori, e una compattezza in campo invidiabile.
Negli anni settanta la Germania Ovest era formata dal blocco del Bayern Monaco, l'altra grande del decennio che, di fatto, prese il trono lasciato libero dall'Ajax. In quel Monaco giocavano Franz Beckenbauer e Gerd Müller. Il primo era un libero con una spiccata qualità tecnica, in grado di lanciare l'azione d'attacco e gestire i tempi del gioco. Il secondo, un centravanti non appariscente, né fisicamente né sul piano delle giocate, ma in grado di farsi trovare sempre pronto a mandare la palla in gol. Lo testimoniano le quantità immense di reti segnate.
I caratteri della scuola tedesca sono rimasti invariati fino ad oggi.
La scuola spagnola
Si tratta di una concezione di calcio basata sul possesso palla, sulla verve agonistica, sul gioco corale che porta ad offendere con più uomini diversi, ma con un ritmo più cadenzato rispetto al calcio centro-europeo. Real Madrid e F.C. Barcelona hanno portato questa filosofia ai livelli più alti, anche se soprattutto per merito di stelle straniere.
La scuola portoghese
Il calcio portoghese adotta un gioco molto tecnico, palla a terra, passeggiato e sempre in attesa di un'invenzione o una giocata di fino per le soluzioni offensive. In questo è molto più vicino al calcio brasiliano che europeo. La grande carenza della scuola portoghese è di non aver mai saputo produrre (ad eccezione del grandissimo Eusebio) centravanti prolifici. Questo handicap ha pesato moltissimo sulla carenza di vittorie a livello di nazionale, mentre a livello internazionale di club ha un palmares di tutto rispetto.
Il calcio allegro dei brasiliani



Ronaldinho
Il calcio brasiliano rappresenta la massima espressione dell'allegria e del puro divertimento volto ad intrattenere. Grazie ad una filosofia di gioco volto all'innata musicalità (detto appunto calcio bailado) e senso della tecnica, i brasiliani possono essere dichiarati i più grandi interpreti di questo gioco, non solo per i grandissimi risultati ottenuti nelle competizioni internazionali, cinque volte campione del mondo per nazione (1958, 1962, 1970, 1994, 2002), ma anche per i grandissimi fuoriclasse che questa scuola ha saputo produrre, Pelé, Garrincha, Vavà, Altafini, Zico, Eder, Falcao, Socrates, Careca, Romario, Bebeto, Ronaldo, Ronaldinho, Adriano, Kaká, Roberto Carlos e tantissimi altri. È un modo di intendere il calcio che è molto amato e benvoluto dai tifosi, e non solo brasiliani. La scuola brasiliana di inizio secolo si caratterizzava da grandissime doti tecniche e di palleggio che riuscivano a sopperire le carenze tattiche che solo negli ultimi decenni, con la partecipazione di giocatori brasiliani in club europei, ha saputo colmare. L'influenza europea ha fatto ottenere grandi progressi soprattutto nel reparto difensivo, per anni considerato dagli specialisti un po' "scarso", tanto che attualmente molti difensori, anche estremi, di nazionalità brasiliana hanno trovato posto in grandi clubs europei. 

La scuola argentina a passo di tango


Diego Armando Maradona
Come la composizione etnica del loro paese suggerisce, gli argentini hanno sviluppato una concezione calcistica prettamente europea, mantenendo una contaminazione propria del sudamerica in misura molto inferiore a tutte le altre scuole d'oltreoceano. È una delle massime espressioni del calcio mondiale sia a livello individuale, avendo dato i natali ad alcuni tra i migliori giocatori del pianeta calcio, primo fra tutti Maradona, sia in ambito internazionale, con la vittoria di due titoli mondiali per Nazioni (1978 e 1986) e con alcuni clubs, ad esempio il Boca Juniors, capaci di imporsi nelle varie competizioni continentali e intercontinentali.
Uruguay: gli italiani del Sudamerica
Con un gioco vigoroso, molto fisico e difensivista gli uruguagi hanno saputo raccogliere vittorie sia a livello di nazionale (titoli mondiali nel 1930 e nel 1950) sia a livello di club con il Peñarol. Dotati della famosa Garra (grinta) le formazioni di questa scuola si presentano agguerrite ed a livello tattico dotate di un insolito centromediano metodista, una specie di libero dello schema italiano, ma schierato davanti alla difesa con compiti di interdizione e marcatura quando la squadra subisce, e come perno centrale per il rilancio dell'azione quando la squadra è in possesso di palla.
La scuola balcanica
In forte declino negli ultimi anni, le squadre balcaniche, grazie ad una innata eleganza nei movimenti e bravura nei fondamentali generalmente diffuse tra i propri giocatori, hanno sempre messo in mostra un calcio fatto di tecnica e fantasia, ma anche di duri contatti fisici. I ct non sceglievano i giocatori più utili alla squadra o al modulo tattico, ma semplicemente facevano giocare i più bravi, anche fuori posizione. Questo, unito ai frequenti litigi interni e a una fase difensiva di poco spessore, non ha permesso ai club e alle nazionali di raggiungere vittorie di primo piano. Comunque, puntando fortemente sui singoli hanno fatto conoscere al mondo innumerevoli campioni, tra cui Dragan Dzajic e Dejan Savićević (entrambi ala sinistra dell'ex-Iugoslavia e connazionali del regista Dragan Stojkovic), Gheorghe Hagi, trequartista rumeno, Hristo Stoichkov, punta bulgara, Davor Suker, punta croata, e Zvonimir Boban, regista croato.
Il calcio del secolo XXI: nuove scuole nascenti?
Durante il secolo di calcio appena trascorso si è potuto osservare una notevole alternanza di scuole calcistiche e di filosofie di gioco che hanno contribuito a creare una precisa identità sportiva per ogni nazione e relativi campionati. Oggi, nel calcio del XXI secolo, queste differenze maturate nel corso degli anni si sono radicate e conservate anche se è sempre più possibile osservare, col passare del tempo, una certa generalizzazione degli stili di gioco nei vari paesi. Le varie scuole calcistiche, pur conservando tutt'ora delle caratteristiche specifiche, si sono amalgamate tra loro. Questo fenomeno è stato possibile grazie alle oramai sempre più frequenti opportunità di confronto con altre mentalità sportive, garantite dalle competizioni europee.
Uno dei punti comuni in cui ci si è principalmente mossi in questi anni è quello della maniacale preparazione atletica e fisica dei giocatori. È infatti possibile notare abissale differenza con le generazioni calcistiche di un neanche tanto remoto passato: una velocità di manovra nettamente superiore, squadre più corte e un pressing accentuato fin dalla metà campo avversaria. Questa grande attenzione all'aspetto atletico resta ovviamente in funzione dei tatticismi moderni che richiedono come già detto una grande velocità di manovra e frequenti sovrapposizioni offensive. È chiaro come nel panorama attuale, assistere a evoluzioni eclatanti come è avvenuto negli anni passati sia molto più difficile; assistiamo quindi a delle piccole variazioni che tuttavia, nelle complicate meccaniche di gioco moderne, possono fare la differenza.
Negli ultimi anni ha assunto grande importanza la costituzione di un gruppo solido, compatto e convinto delle proprie capacità: è stato dunque ridefinito il concetto di "squadra". La componente psicologica è un aspetto fondamentale in questo processo ed è in gran parte delegata all'allenatore a cui spesso si affianca un leader carismatico in campo. Tale credo ha permesso a squadre di fascia "medio - bassa" di imporsi nelle principali competizioni europee, come dimostrano i successi di Porto e Grecia nel 2004 (rispettivamente in Champions League e Campionato Europeo) e più recentemente anche del Liverpool, che dopo anni di anonimato internazionale è riuscito nella grande scalata europea.
Proprio l'allenatore di quel Porto campione d'Europa José Mourinho è forse il principale interprete di questa rinnovata concezione di squadra a cui ha affiancato diverse meccaniche tattiche volte ad una maggiore velocità nella circolazione della palla. Con il Chelsea di Mourinho si è spesso parlato di una nuova rivoluzione calcistica, e in effetti gli immediati successi e lo schiacciante dominio nel campionato inglese dimostrarono un approccio sicuramente efficace ed innovativo. Attualmente è l'allenatore portoghese ad aver apportato i cambiamenti più efficaci nel panorama calcistico inglese. Tra gli altri allenatori che hanno portato questo concetto nuovo di squadra anche alle più blasonate formazioni europee va menzionato anche Fabio Capello, ex allenatore della Juventus e del Real Madrid. Il tecnico italiano ha saputo costruire, su una base di grandi giocatori, quella solidità e quel concetto di gruppo che ha avuto tanto successo. Con il prendere piede di questa nuova mentalità, si spiega anche la crisi di alcune importanti squadre europee in questo periodo, in particolare il Real Madrid e il Manchester United, oggi tornate su alti livelli, ma che fino ad alcuni anni or sono avevano smarrito, pur potendo contare su grandi giocatori, la propria identità di gruppo.

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